Firenze, 4 gennaio 1977.
Cecilia
Paolo mastica una Brooklyn. Cecilia lo guarda seduta a cavalcioni di una vespa primavera grigio argento metallizzata. Le sette di sera. Piazza del Duomo brulica di turisti infreddoliti, le pance consumate dalle feste. Nasi arrossati allo struscio di vetrine luccicanti.
“Quando cazzo arriva? ” la voce di Paolo si confonde tra i capelli che scendono come tende nere sul naso adunco.
“Ha detto le sette, stai calmo” ghiaccia come il cielo. Mai una piega in quella faccia d’angelo ad occhi di mare. Un gabbiano da combattimento. Cecilia. La migliore di tutti, al poligono.
Gli autobus passano uno dietro l’altro. Dentro i carri bestiame le facce smunte dondolano al ritmo di frenate e sgassate. Una bicicletta nera compare improvvisa da dietro il 17. Si ferma al marciapiede. L’uomo dal trench avana le da un colpo di pedale ben assestato e questa come d’incanto resta dritta, a contrasto del gradino. Paolo fa un cenno.
“Eccolo, vai!”
Lei scende dalla vespa e gli si fa incontro. Lo abbraccia, lo stringe, lo bacia. Qualcuno sorride, strusciandoli per passare oltre. Un bel quadretto, una réclame dei baci perugina vivo-live. Sorride anche lui, le passa una mano tra i capelli, si avvicina all’orecchio.
“Già carica, colpo in canna. Per renderla, solito modo. Lui esce tra mezz’ora esatta. In bocca al lupo!”
Un altro abbraccio. Natale appena passato, una sfumatura di tristezza sulle spalle strette. Cecilia si stacca, piano piano, mano nella mano, mentre con l’altra si sistema la borsa a tracolla che l’uomo le ha appena passato sulla spalla. Chiunque racconterebbe di due innamorati in una sera di inverno.
Paolo è già sulla pedivella a fracassare il rumore di fondo di una notte da eroi. Cecilia cammina impettita per una decina di metri e gira l’angolo. Borgo San Lorenzo, una pizza e due calzoni sempre pronti per il turista affaticato dallo shopping. Arriva la vespa, ci salta su. L’aria si è fatta umida, i capelli biondi le svolazzano sul giubbotto di pelle che si stringe al collo. Paolo guida facendo molta attenzione ad evitare le buche.
Dieci minuti e arrivano in Piazza Oberdan. Quartiere signorile. Sei strade che partono tutte da una piazzetta delimitata da alberi e panchine. Un altro mondo. Il mondo dei signori, fuori dal casino del centro, eppure “in centro”. Paolo ferma la vespa all’angolo di una via piena di palazzi e di fronde d’albero che sbucano dai giardini. Cecilia scende, lui resta sopra. Si guardano. C’è da far scorrere il tempo, che invece se ne resta impantanato come un macigno nel fango. Paolo cerca quegli occhi di gelo per fermare il cavallo che si sente scalpitare dentro il petto. Cecilia lo fissa, sorride. Alle riunioni era sempre così incalzante, così combattivo. Ora invece è lì, davanti a lei, un cucciolone di 80kg che se la fa addosso al primo ringhio del bastardino del giardino accanto.
Non è così che se lo era immaginato il suo battesimo di fuoco. Tutte quelle chiacchiere, tra mille sigarette spente nei posacenere stracolmi. La lotta armata, il salto di qualità. La foto di Lapo ancora stampigliata nella sua testa. Quella della prima pagina de La Nazione, appena sotto il titolo “Terrorista ucciso durante una rapina alla Cassa di Risparmio di Firenze in piazza Beccaria”.
Non avevano avuto pietà. Il passamontagna tirato su in fronte, la faccia invasa dal sangue appoggiata sul selciato. Buona per vendere copie e far chiudere gli occhi. La sua faccia. –Non era così, non era così! Era dolce, calda, era un sogno, un abbraccio, una parola disperata, smozzicata, sussurrata nelle notti fredde, appena fatto l’amore…-
Ora c’è Paolo. Non certo nel suo cuore, quello ormai è foderato di amianto. Paolo è lì, davanti a lei, con il giaccone verde come la faccia, pronto a fare la sua parte. Quella di supporto all’operazione. Il macigno ha incredibilmente spostato le lancette. Le sette e quaranta. L’ora X. Vamos! Il portone del 45 è illuminato dal lampione accanto. Non c’è gente, le feste avvolgono il centro dei tutti, non quello dei pochi.
Cammina sull’altro lato della strada, come le ha detto Stefano all’ultima riunione. “Passeggia tranquilla, tieni d’occhio le luci della finestra al piano terra. Quando si spengono, preparati: lui aprirà il portone, tu attraversa, mettiti dietro, calati il passamontagna, estrai la pistola, chiamalo per nome. Quando si gira, sparagli dritto alle gambe. Alle ginocchia, mi raccomando, alle ginocchia! Niente testa o torace e nemmeno le cosce: noi non ammazziamo. Noi, educhiamo”
La luce è sempre accesa. Cammina lenta, con il passamontagna a mo’ di berrettino sul capo. La finestra si spegne. Attraversa la strada, nessuna macchina in giro, nessuno sul marciapiede. Perfetto. Eccolo. Un uomo in loden, alto, sui cinquanta, corporatura robusta. Un monumento alla produttività, quando gira in fabbrica. Qui, solo un obbiettivo in movimento. Andatura tranquilla, lei lo segue a cinque metri. Nella sua testa la voce di Stefano, la faccia di Lapo. –Adesso Cecilia, adesso!- Passamontagna giù, pistola ben impugnata. Sente la sua bocca aprirsi, il nome uscire: “Serrazzi!” La nuca ben curata si gira, il naso, i baffi, la bocca…-Ricordati, Cecilia, non guardarlo mai negli occhi!-
“Sì?”
Bang bang bang bang bang!!!!!
“Aaaaaaaaahhhhhhh!”
L’uomo crolla a terra di schianto.
Cecilia corre. Paolo all’angolo ha massacrato la pedivella. La vespa ruggisce come fosse una Harley Davidson. Ci salta sopra al volo, Paolo dà gas, quasi decollano. Due a destra una a sinistra poi dritto dritto dritto, poi ancora a destra, rallenta, rallenta. “Togliti il passamontagna”. A sinistra, sinistra. Poi a dritto. Ecco Stefano nella Dyane. “Scendi Cecilia, scendi”. Sale sull’auto, Paolo è già lontano. Stefano non guarda non sorride non parla. Guida tranquillo. Piano piano.
È già in autostrada. Pistoia la aspetta, la notte cala su Firenze, circondata di sirene e luci blu lampeggianti. Nella sua testa reclinata sul sedile, adesso Lapo sorride. -Buona notte, amore-.
Lo Strello
Nel furgone, a fari spenti.
“Ehi, passalo, fallo girare…”
“Swoooossshhhhhh”
“Dai, passa…”
“Uffa! Ma lo sai che sei una palla? E pigliatelo!”
“Swwwwoooossshhhh…couff..couff…fanculo!!! Lo sapevo! È rimasto solo il cartone!!!”
Le luci delle macchine passano disegnando strani volti. Volti straniti. Il Bestia, trent’anni di svuotini. Incazzato come una jena. Il Lupo, trent’anni di cannoni, che se la ride. Il potere logora chi non ce l’ha. E chi fa il joint, chi conosce l’arte sopraffina del “rollo”, ha il potere. Primo, perché se lo accende e becca la “botta”. Secondo, perché a girare lui arriva sempre per primo a ripartire. Terzo, perché sa riconoscere se siamo arrivati al cartone. Lo sa solo lui quanto tabacco ci ha messo in fondo.
Il Bestia moccola, gli altri ridono. Aringa pare una bambola rimbischerita. I suoi capelli lunghi e biondi vanno su e giù e gli fanno il solletico alle espadrillas, mentre si ripiega in due dalle risate. Il Gufo si aggiusta il naso a plettro e suona alla chitarra “Cowgirl in the sand”; l’aria si fa più seria. O almeno, meno sguaiata. Già, a proposito, Sguaio dov’è? Eccolo là, secco allampanato, fuori dal furgone, sul ciglio della panoramica, a controllare quante lucine dividono il mondo dal cielo dei sogni. Accanto, l’inconfondibile sagoma di Mastino, una montagna dai piedi piatti, a contare quante stelle separano il cielo dai sogni del mondo.
“E quella icchè llè?”
“Gli è l’autostrada d’i’ sole”
“Ah, anche di notte?”
“Icchè?”
“Gli è d’i’ssole anche di notte?”
“Bah! Certo! O che se’di fori?”
“Boh, sarai sano tu! Per me l’autostrada di giorno gli è d’i’ssole, e di notte gli è della luna”
“Sieeeee! O come tu sarai scemo!?”
“‘ …’un tu capisci nulla! Maremma maiala che miccia…”
“Lupo? Che ne rolli un altro? ”
Una voce roca da dentro il furgone. “O ragazzi, ho finito l’afgano”
“Maremma impestata!” Il Bestia ” lo sapevo! E io ‘un l’ho manco assaggiato!!!”
“Io ci avrei un po’ di marocchino, ma ho finito le cartine” Aringa, rimettendosi i capelli a posto
“No il marocchino no…dopo l’afgano fa cahare…e poi…”
“E poi icchè?”
”…’un trovo più le cartine”
“Ecco! Sguaio!!! Le avevo date a te!”
“A me? O Lupo, o che dai numeri? ”
“…icchè te ne facevi delle cartine?” Il Bestia insospettito
“Ci avevo una caccola di libanese, ma gli era poha, allora ci ho fatto appena uno svuotino”
“Brutta merda! E te lo sei fumato tutto te!”
“Magari! Ho fatto appena un pè e poi se l’è prosciugato Mastino!”
“Ti pareva!!! Maremma maiala, la prossima volta che si compra qualcosa la tengo io!”
“Ma icchè tu compri Bestia, ‘un t’hai mai una lira, tu se’sempre a ufo!”
”…’un son mica un borghesuccio come te Gufo, io sono un proletario! ”
“Siiiiii, proletario…ma lo sai almeno icchè vuol dire?”
“Certo, che sono povero in canna! ‘Un ci ho ‘na lira, Maremma boia!”
Fa un freddo cane. Lo Strello se ne sta da una parte, zitto, appoggiato alla portiera. Secco, le spalle leggermente ricurve e una cascata di capelli arricciolati che gliele coprono. Lui la luna non la guarda più da tempo. Le ha detto ciao in una notte così. Piegato in due dal dolore con le lacrime che gli accarezzavano inutili la faccia. Le ha detto ciao, prima di vedere richiudere quella piccola bara bianca, con dentro la sua bambina appena nata. Appena nata, appena morta. “Anomalia congenita” una frase stampigliata sul grigio di un camice bianco. Tutto lì. Sette mesi a sentirla muovere, nella panciona di Loredana, e poi il nulla. Una corsa strana di notte, ospedale addormentato come il guardia. Camici e ostetriche. “Lei aspetti qui”. Dodici ore d’attesa. Le sedie non hanno lenzuoli e si rivestono d’incubi. Poi la mattina, quando tutti sembrano puliti e splendenti o anche solo umani e viventi, un dottore che dice “è femmina, l’abbiamo mandata al Meyer per un controllo…” Si chiamerà Barbara. Figlia dello Strello e di una notte più lunga del buio. Poi il nulla, un telefono che squilla, una corsa, l’ultima, verso due mani fredde che dicono “E’ morta. Anomalia congenita.” E nessuno che glielo dica a Loredana. Che aspetta in corsia, mentre tutti intorno giocano ad allattare bambole viventi. E allora lo Strello si veste da Aquila della Notte, scivola lento tra i letti, le prende la mano, l’abbraccia forte, tanto forte, la stringe e se la porta via. Piegata in due dal dolore, con i vestiti addosso alla rinfusa, la porta via, via per sempre, da quella notte senza luna.
Ora è lì. Non sorride, lo Strello. Sa che quella non è la luna, ma un buco nella coperta del cielo.
……
Claudio
Alla Direzione Generale la sirena non c’è. Non è come in fabbrica o alla manifattura tabacchi. Non ci sono neanche le tute. Beh, a guardare meglio ci sono, ma sono quelle degli addetti alle pulizie. Quelli si vede bene che sono diversi. Anche alla mensa mangiano a orari diversi: o prima, o dopo. All’ora giusta mangiano gli impiegati, i capufficio e i dirigenti. Mica tutti insieme, ci mancherebbe. I tavoli in fondo sono quelli dei capufficio, in mezzo, ai lati e in cima, quelli degli impiegati. Che si dispongono tutti a seconda del proprio settore. Il Desk, uno stanzone con dentro trenta camici tutti assieme, occupa i tavoli al centro. Ai lati ci vanno quelli degli uffici del quarto tronco e in cima quelli della direzione generale. Guai a chi cambia tavolo. Sarebbe come mettersi a urlare in un ascensore. Nessuno lo fa. Almeno non qui all’Autostrade spa, il cuore del futuro della mobilità del Paese. Dietro il separè di telo bianco avana si intravedono le sagome dei dirigenti. Azzimati, abbronzati, sorridenti. A volte il caffè lo prendono insieme agli altri, ai capetti e perfino con gli impiegati, al bancone della mensa, come fossero tutti assieme sulla stessa barca.
Claudio è arrivato da poco. 19 anni, un diploma appena sfornato, Ale a dire un lasciapassare sul nulla. Se dopo non vai all’università, tempo e carta sprecata. Un diploma dello scientifico conta meno di un attestato di partecipazione a un corso della Scuola Elettra. È per questo che deve continuare a rullare sui tronchi di legno che scorrono sul fiume del futuro. Ci vuole coraggio, una buona dose di equilibrismo e tanta tanta pazienza. Tutte doti che non gli mancano. Alle medie era il migliore, primo banco, manina alzata per rispondere. Poi al liceo qualche banco indietro, ma non troppo. Della politica se ne è sempre fregato il giusto. Sì, va bene qualche assemblea, qualche attivo, ma fin da quando gli sono cresciuti i primi baffetti sotto il naso ha imparato a starsene alla larga, da “quelli lì”. Troppi casini, troppi drammi. Troppi colori. Fanno male i colori, quando esagerano. Fanno luccicare gli occhi. Si vede il mondo tutto storto. No, a Claudio serve un mondo dritto, tranquillo, sicuro. Poche linee che vanno fino in fondo, dove il cielo si confonde con quella riga d’azzurro. È per questo che gli piace quando arriva l’estate. Partono tutti insieme, papà mamma e Vittorio, il fratellino; in un’ora arrivano al Forte dei Marmi. Sono dodici anni che affittano sempre la stessa villetta. Quattro stradine più in là della piazzetta di Vittoria Apuana, la culla delle vacanze, con la bicicletta a nolo da Rombo, il meccanico della Versilia Dorata. L’unica tuta unta in tutto il litorale.
Simona, la sorella più grande, non viene. Come al solito. E gli occhi della mamma sono sempre più lucidi. Papà ingrana la marcia, il cambio della Giulietta gratta un pochino. Lui di Simona non parla. Forse prega, ma non ne parla. Una tossica in famiglia non esiste. O c’è la tossica o c’è la famiglia. Anche i Rocchetti, i vicini di Empoli che affittano tutti gli anni l’ombrellone accanto al Bagno La Pace, l’hanno capito. E non ne parlano più.
Quest’anno però Claudio la domenica notte torna indietro con il papà. Lui se ne va in azienda a impazzire dietro agli ordini della merce che non arriva mai dal Giappone, Claudio invece timbra il cartellino. Arriva lì tutte le mattine alle 9.00. Con il cinquino usato che papà gli ha regalato per i suoi 18 anni. Una cinquecento con il tetto a scacchi e il cambio in legno che pare la cloche di un aeroplano. E alle 17 in punto si fa festa, se il capufficio non rompe con gli straordinari. Perché se quello insiste, toccano sempre a lui. Gli altri, i vecchi, Cardelli in testa, una vita di giornali letti al cesso del reparto, scuotono le spalle e la testa. Lui no. Se c’è da lavorare, si lavora. È così che si va avanti.
Oggi però il Luisoni è stato buono. Niente richieste. Via libera. Una corsa a casa, una doccia veloce veloce e alle sette Claudio è già sotto casa di Alessandra, un metro e sessanta di poppe, culetto e occhi dolci. Eccola. Caschetto di capelli biondo cenere, golfino rosa, pants azzurri e stiAletti di pelle. E due cosce nude che fanno salire le formiche per la schiena.
“Ciao amore” due labbra al gusto di ciliegia si incollano alle sue come risposta. Lui la bacia con foga, le piazza la lingua al centro della bocca e la martella.
“Ehiiiiiii” si stacca a stento dalla morsa a trivella “Claudio, aspetta…il rossetto…dai andiamo che ci sono i miei in casa, se si affacciano…”
Lui guida veloce, il cinquino sembra una Ferrari a Montecarlo. Arrivano a Morello con un tempo da qualifica per il rally delle cinque terre. Tra una frenata una sterzata una sgassata e una sbandata, Alessandra gli ha già raccontato del casino al Miche, il suo liceo, dove quattro ragazzi sono stati arrestati per “la politica” e tutti gli altri allora si sono incavolati e hanno “occupato la scuola ad oltranza”. Claudio intanto ha parcheggiato nel solito posto, uno slargo passato lo sterro in mezzo alle frasche alla seconda curva dopo la botteghina. Come sempre, non c’è un’anima.
“…e allora il Caselli ha preso il megafono e…oh, ma mi ascolti? ”
“Sì, sì…però dai vieni qui…”
“Claudio….aspetta…uffa…aspetta…così mi rompi la zip…”
“Dai Ale, levateli…ma perché non ti metti la gonna? Accidenti a te…amore…dai”
“Madonnina mia…ahhhh…o aspetta almeno che me…li…….le……vo…oooohhhhhh”
“Sei così bella, Ale…ahhhhh…ecco…”
“Ma cosa fai?”
“Mi spoglio, no? Ecco…dai vienimi sopra… Ma prima levati anche quelle…”
“Uffa, Claudio…e smettila un attimo con queste dita…mi sembri il ginecologo! ”
“Oh dai…lo vedi che ce l’ho già duro? Dai…vieni sopra tu…”
“Ma ci batto la testa qui dentro! Perché non andiamo lì fuori, sull’erba?”
“No, no, amore…macchè erba…è tutto sudicio lì…e poi ci sono i ragni…”
“I ragni? I ragni tu ce l’hai nel cervello…uffa e stai un po’ fermo con quelle mani…Dio mio, sembri una piovra…ma quante ne hai di mani, eh? ”
“Dai Ale…dai”
“”Vengo, vengo…che bello che ce l’hai…però…fai piano, eh?…ohi!… pure sto cambio…ci ho battuto un ginocchio”
“Dai, sali qui che te lo faccio passare io il male al ginocchino…ecco …così …”
“Ohiiii!”
“Ti fa male?”
“Macchè ! Ho battuto la testa sul tettino…ma porca miseria, Claudio…io….ohhhh”
“Ohhhhhh…..Ale, Ale…Ale….”
“Ohiiiiiii!!! Ma….fai…….pia……noooooooooohhhhhh”
“Ale Ale Ale Ale….Aleeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee”
“Ahiiiiiiiiiiii…mi fai male con quelle mani sembrano tenaglie…ohiiii il vo…lan…..teeeeeee”
“Ale Ale Ale Ale Ale Aleeeeeeeeeee…Aleeeeeeeeeeee..e!!!”
….
….
“O che fai?”
“Come icchè fo? Sono venuto, amore”
“Ma che sei scemo!?! ….”
“Cazzo…è vero…”
“Te lo avevo detto brutto scemunito idiota!!! Non la prendo più la pillola!!!! Mi gonfia!!!”
“Cazzo cazzo cazzo…scusa Ale…”
“Scusami una sega, cretino!!!!! Guarda qui…tutto dentro mi sei venuto…”
“Vuoi un fazzolettino?”
“Ma cosa cazzo vuoi che me ne faccio di un fazzoletto!!! Mica me lo aspira…ohhhh cazzo cazzo!!! E sono pure nei giorni di pericolo…accidenti a te! Idiota! Portami a casa, subito……forse Carla sa come si può fare…idiota…dai, portami a casa…”
“Ok…scusa…”
“…e smettila di chiedermi scusa, stronzo! Non mi dire più nulla, e prega!”
Il cinquino adesso girella per le curve di Morello con la faccia di chi l’ha fatta grossa. Il cielo è nero. Come quella cosa nella testa di Claudio. Assomiglia a una nuvola.
“Speriamo non vada a piovere” pensa, mentre sgomma veloce verso la città appena accesa dalla sera.