
L’applauso
L’uomo se ne sta lì, sul palcoscenico, davanti al sipario abbassato. Nella sala, pochissima luce trapela dalle uscite di sicurezza socchiuse. Mancano ancora due ore all’inizio della rappresentazione e una all’ingresso del pubblico. Le prove del pomeriggio, per quanto meticolose, si sono concluse già da una mezz’ora abbondante. Di solito lui, il Primo Attore, il Genio della compagnia, passa questi rari momenti di pausa nel suo camerino, a ripassarsi la parte nelle scene più difficili, a intonare a più riprese la voce, raccordandola al sentimento e all’interpretazione.
Invece, quel giorno se ne sta lì, senza dire parola, solo, con la testa leggermente inclinata sulla destra, ad occhi chiusi.
“Cosa sto facendo? Perché non sono in camerino? Cosa ci faccio qui, in un teatro vuoto, sul palcoscenico, a sipario abbassato, a luci spente?”. Riapre gli occhi per un momento, quasi a riprendere il controllo, per spingersi verso la scaletta che dà sul retropalco. Poi, di nuovo, li richiude.
Dal fondo della sala arriva a colpirlo un refolo di vento, una porta che si apre e si richiude silenziosamente. Apre gli occhi, sforzandosi di vedere nell’oscurità. Una figura di donna si staglia in controluce tra lui e la porta.
“Forse è la cassiera” si dice” anche se mi sembra un po’ presto per l’apertura del botteghino. E poi, perché è qui?”. La donna fa qualche altro passo, entrando nel semicerchio pallidamente illuminato dalle luci di servizio appese al soffitto della galleria. Lui la guarda stupito. “Sembra proprio mia madre” pensa, passandosi una mano sulla fronte imperlata da goccioline di sudore “Mia madre da giovane, quando ero piccolo. Che strano”.
La donna avanza decisa fino alla prima fila e poi si siede nella poltrona di solito riservata al Direttore del Teatro.
“Credo sia riservato, signora” prova ad avvertirla con cortesia.
Lei non fa una piega. Non alza la testa verso di lui, non annuisce, non risponde, non fa cenni.
Si sente imbarazzato. Ha recitato tante parti su quel palco, ma non gli è mai capitato di non avere risposta dalla platea. Tutto è sempre stato perfetto, ogni sceneggiatura minuziosamente studiata per ottenere il massimo impatto sul pubblico. Mai una pausa fuori posto, mai una battuta esasperata o inconcludente. Mai. Ha ottenuto sempre e soltanto reazioni, ammirate o comprese, stupite o esaltate, ha suscitato emozioni e riscosso applausi.
E ora, quella lì, se ne sta zitta, a fissarlo nel buio.
Gli viene voglia di andarsene. Fare ritorno al camerino, bersi una coca-cola, ripassarsi la parte. Laggiù, al sicuro, via da quella strana sensazione che pare trasmettersi su quel palco, in quella sala deserta.
Quasi deserta.
Lei è lì, seduta sulla poltrona del Direttore, che continua a guardarlo.
D’un tratto, là in fondo, la porta centrale si apre di nuovo. Entrano due bimbi, ed un uomo dalla corporatura massiccia che li tiene per mano. Senza profferire parola, i bimbi si staccano mano dell’uomo e prendono a correre per i corridoi laterali della sala.
“Signore, attento!” prova a urlare, ma la voce quasi gli si strozza in gola. I bimbi percorrono tutto il perimetro del teatro e si arrestano proprio davanti a lui, squadrandolo, come solo i bambini sanno fare, dal basso verso l’alto. Sono due gemelli, proprio come lo erano i suoi fratellini minori. Dopo un attimo di studio, si precipitano a sedere sulle sedie accanto alla signora. L’uomo, nel frattempo, con passo greve e lento, raggiunge anche lui la prima fila.
L’Attore ha un fremito. Suo padre! Non ci sono dubbi. Alto, moro, con due baffoni da tricheco che gli avevano sempre fatto il solletico sul pancino nei rari momenti di gioco.
“Babbo!” urla con quanto fiato ha in gola. Ma l’uomo pare non capire, o non sentire. Si siede dall’altra parte della fila, ben distante dalla donna, un po’ meno dai bambini che tiene sott’occhio.
“Babbo!” grida di nuovo, consapevole dell’assurdità di voler richiamare l’attenzione di un uomo morto da almeno dieci anni. Lo ha salutato per l’ultima volta, abbracciandone il corpo ormai freddo, in una maledetta giornata grigia, in una dannata sala bianca, fredda, con la luce verdastra. Non può essere lui, lo sa bene. Eppure è lì, seduto quasi in fronte a lui, serio, come al solito, con le braccia conserte e l’aria fiera.
D’un tratto le luci aumentano di intensità, preannunciando l’arrivo del pubblico. E’ il segnale, per chiunque calpesti le scene, di fare ritorno nei camerini, nel retropalco, alla buvette, comunque dietro quel sipario. Mai farsi vedere, prima di entrare in scena. E’ una regola. Non rispettarla può provocare il crollo della rappresentazione.
Gli Attori esistono solo e soltanto sul palco. Vivono unicamente lassù, con le luci messe a puntino, le scenografie più opportune, le battute già pronte e studiate, dette come fosse sempre la prima volta. Vivono e muoiono nello spettacolo, per lo spettacolo, con lo spettacolo. Prima e dopo, il palco deve essere deserto, altrimenti lo spettacolo non esiste.
Deve quindi assolutamente andarsene. Si dirige verso la scaletta, poi, qualcosa, che non è una voce, e neanche un pensiero, forse un’idea, lieve e pesante al tempo stesso, lo ferma. Attende, fremendo per l’impazienza, quasi con ansia, lo sguardo rivolto verso la sala, l’arrivo del pubblico.
Per la prima volta nella sua vita, è lui che attende loro e non viceversa. Una sensazione nuova, abbastanza sgradevole, specie per un Primo Attore.
Gli addetti alle porte hanno già sollevato le tende in modo da permettere il passaggio degli spettatori, e le luci di sala e sui palchi hanno raggiunto la loro massima intensità. Il momento in cui il Teatro perde la sua magia, mostrandosi per quello che è. Un raccoglitore di persone, degnamente vestite, alla ricerca di una emozione, di una conferma, di una apparenza o di un nulla. E meno loro hanno, e più sono disposte a seguire l’Attore, rapite, atto dopo atto, scena dopo scena, battuta dopo battuta. Alla ricerca di un qualcosa che Lui può regalare, mostrare, o solo far apparire per un istante. Una comunicazione a senso unico, così sbilanciata da farli sentire in obbligo di pagare un biglietto e di ripagarlo in applausi. Gli applausi finali.
Quelli che dovrebbero decretare il successo.
Dovrebbero, perché un Primo Attore sa bene che l’applauso è obbligato. Fa parte della rappresentazione, ne è l’ultima scena. Dietro il sipario l’attesa non è mai trepida, ma scontata, pur se il successo è meritato. Proprio perché tutto, tutto, è stato fatto per quello. E se non ci sono intoppi e si arriva alla fine, l’applauso è dovuto. Obbiettivo raggiunto.
Intanto, il brusio che sempre accompagna l’entrata del pubblico cresce di tono. Improvvisamente, quasi si fossero accordati appena un attimo prima, gli spettatori fanno il loro ingresso in sala, entrando in contemporanea da ogni porta, riempiendo la platea, i palchi, il loggione.
L’idea che prima lo ha fermato ora prende sempre più posto nella sua testa confusa.
Guarda gli arrivati uno per uno, come mai ha fatto fino ad ora. L’Attore non guarda mai il suo pubblico, non lo vede, non può farsi catturare da alcuno sguardo. Egli è sopra ogni cosa, sopra il reale, il quotidiano, oltre ogni carico di dolore e di miseria che ci prendiamo sulle spalle ogni giorno. L’Attore è Libero.
Guarda il “suo” pubblico, persona per persona. E si accorge di conoscere ognuno di loro. Li ha incontrati giorno per giorno, momento per momento, durante la sua vita. Ci sono tutti, dal salumiere sotto casa alla maestra di prima elementare. Ai parenti, agli amici, ai nemici, agli insegnanti, agli amori, ai dolori, alle passioni, ai passanti. Sì, ci sono anche loro, quelli incrociati anche solo una volta nella sua vita. Barboni, vigili urbani, impiegati delle poste, anonimi passeggeri di un treno, di un autobus, di un ascensore. Persone che neanche ricorda di avere mai visto e che ora sono lì, seduti in silenzio davanti a lui, riempiendo la platea e i palchi fino all’inverosimile.
Se si trattasse di una ordinaria replica, un simile afflusso di pubblico farebbe presagire un successo clamoroso.
Ma stavolta non ne è così sicuro, anzi.
Guarda tremebondo il loggione; gli pare di scoprire qualche volto noto. Sì, lassù, c’è qualcuno del suo vecchio pubblico, quello che viene a teatro, che lo ha amato ed adorato come Grande Attore. Nascosto tra tante facce anonime, eppure ben conosciute, qualche volto sorridente lo incita a dare, ancora una volta, il meglio di se stesso, a recitare. Pochi, troppo pochi, per far sperare anche in un minimo di successo garantito.
E poi, “Quale recita?” si chiede sconvolto “Quale copione devo seguire, quale spettacolo andrà in scena stasera? Dove sono gli altri, dov’è il capocompagnia, dov’è il suggeritore?”
Per la prima volta in vita sua, si sente perso sopra un palco, senza più battute, senza più energia.
Cade rovinosamente sulle assi del pavimento. Chiude gli occhi, cercando di svegliarsi da quell’incubo. Non può che essere un incubo.
Poi socchiude le palpebre, inutilmente speranzoso. É ancora lì, sul palcoscenico; loro sono ancora lì, in teatro. Le luci di sala si sono spente. Dal palco centrale che gli sta proprio di fronte, il raggio luminoso di un seguipersone lo centra in pieno.
“In piedi, per Dio!” si dice, chiamando a raccolta le ultime stille di quello che è stato il suo coraggio d’attore. “In piedi! Reciteremo a soggetto…” cerca di rassicurarsi. Altre volte ha avuto momenti di difficoltà sul palco, mai per colpa sua, sempre per qualche intoppo tecnico o per colpa di altri attori non alla sua altezza. E lui ha sempre risolto gli empasse, dribblandoli con la sua innata capacità di improvvisare, secondo schemi ben collaudati che fanno sì che un Grande Primo Attore, anche senza canovaccio, possa andare avanti incantando il pubblico, come un illusionista, per tutto il tempo che gli necessita.
Ma, una volta faticosamente rimessosi in piedi, rimane in silenzio, come inebetito, la testa vuota, la bocca vuota, la gola vuota. Il seguipersone continua a inquadrarlo, impietoso.
“Mio Dio, Ti prego, fai andar via la luce” si ritrova a sperare vergognosamente.
Ma quel fascio luminoso continua inesorabile a colpirlo proprio in mezzo agli occhi, accecandolo, prostrandolo ancora di più, annullandolo, nella luce e nel silenzio. Gli sembra di impazzire. Ha tutto il corpo teso, eppure è immobile; vuole gridare, eppure è muto. La luce aumenta ancor più di intensità, trapassandolo da parte a parte.
Ora capisce. Sta morendo.
Sta morendo su di un lettino di un maledetto ospedale, in una giornata grigiastra. Fa freddo. Troppo freddo per vivere. Chiude gli occhi. Freddo e buio. É morto?
Si sente avviluppare da una coperta nera e trascinare via. In fondo, una piccola luce. Guarda quel piccolo punto luminoso che si sta ingrandendo via via. Sempre più grande, fino a sommergerlo.
É tornato sul palco. La luce, lentamente, si muove, lasciandolo al buio per dirigersi sul pubblico.
Impietrito, la vede torcersi fino ad inquadrare sua madre, poi i suoi fratelli, suo padre, poi tutti gli altri. Il seguipersone illumina, e lui vede. Vede la sua vita attraverso quel viso illuminato, si vede come quel viso lo ha visto, sente quello che l’altro ha sentito per lui, di lui, con lui.
Gli sembra di sprofondare, come se il palcoscenico scendesse e la platea salisse, fino a cingerlo, unita ai palchi ed al loggione come in un anfiteatro. É nel punto più basso, e segue trasognato la sua vita interpretata negli occhi e nei volti degli altri. Di tutti, anche di quelli che crede di non conoscere o di non ricordare. Ma che invece paiono ricordarsi benissimo di lui.
Poi la luce sparisce, quando anche l’ultimo passante del loggione ha finito di raccontargli la sua vita.
E rimane immobile, sul palco, in silenzio, davanti al sipario abbassato, a capo chino.
Come tante altre volte, la Recita è finita. Manca solo l’Applauso Finale.
Attende, straziato da tutti quei volti, dai loro silenziosi racconti, dal bene e dal male che ha commesso. In cuor suo sa di non aver fatto un grande spettacolo, anzi, e ne è maledettamente consapevole. Ha recitato a soggetto per tutta la vita senza saperlo. Lo avesse saputo, avrebbe sicuramente strappato un applauso grande quanto una montagna. Un Attore come lui, che conosce tutti i trucchi del mestiere, così bravo ad impersonificare fino ad incarnarsi nei suoi personaggi, a farli rivivere, scolpendoli in maniera indelebile nella mente del suo pubblico, fino a regalare loro una nuova vita! Non sarebbe stato certo difficile riscuotere alla fine un enorme, strameritato applauso.
Ma nessuno lo ha avvertito, ed ora è lì, disperato per la miseria dello spettacolo della sua vita. Per quel che ha fatto e per tutto quello che non ha fatto. Un Grande Attore, un piccolo uomo. Forse lo ha sempre saputo, almeno intuito, specie in quei rari momenti quando il malessere si è mostrato insopportabile e quella stupida vocina si è fatta sentire….ora ne è, purtroppo, certo. E attende mesto quella salva di fischi, o, peggio, quel silenzioso allontanarsi del pubblico nell’indifferenza, che lui stesso sa di essersi meritato.
Piange a dirotto, di un pianto straziante ma, finalmente, sincero.
Un pianto.
Un pianto vero.
Proprio in quel preciso momento, vede sua madre alzarsi in piedi e con occhi pieni di amore urlargli “Bravo!!!” seguita a ruota da tutta la sala. Il teatro è scosso da un enorme, lunghissimo applauso, che lo avvolge amorosamente e lo accompagna dietro il sipario, verso il camerino, per l’ultima, splendida volta.