TUTTI I PARTICOLARI IN CRONACA
perché la poesia a volte urla, piange, denuncia
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NON HO PIU’ VOCE PER VEDERE
(Pasqua 2018)
Fammi entrare
dentro la tua oscurità
riposami nelle pieghe del mondo
appartami in mute parole
vestimi di una preghiera stanca
riparami.
Non ho più voce per vedere
nè mani ad accompagnare
una figlia nel destino
ma solo un flauto
di tristezza e solitudine
tra le macerie di un sogno tradito.
GLI SCOMODI
Gli scomodi
hanno ali annerite
dal gasolio benpensante
e gridano
attaccati al collo
di una bottiglia di birra
aperta
al confine del Cielo
mentre gli angeli
lampeggiano nel blu.
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AMATRICE
Fiocchi di parole
cadono lente su Amatrice
è neve sporca
di promesse di sorrisi
che mutano nel ghiaccio
dell’indifferenza.
Il gregge non ha fretta
di essere condannato
a pascolare erba sintetica
finta come le parole
che ancora imbiancano
di grigio i monti.
Barcellona, alla radio, un furgone
E ti trovi alla coop
una spesa incastrata tra tante
un carrello di frutta e di birra.
E qualcuno ne parla
l’hanno detto alla radio …
un furgone a Barcellona
proprio lì
perché lì
e ti guarda, lui ti guarda e non dice
e ripete sommesso
un furgone, Barcellona, alla radio.
È un fiume
un fiume di sangue
che passeggia tra gli urli
a zig zag, sulle Ramblas
di un giorno d’estate
Un furgone, Barcellona, alla radio
la Falce.
Gli artigli hanno lasciato
strisce di sangue
sul selciato della nostra vita.

Don’t clean up this blood
Non pulire questo sangue
non c’è sapone a togliere
l’orrore del fango
martello che sfonda l’osso
le facce devastate
dall’odio e dalle botte
Non pulire questo sangue
è il tuo sangue, il nostro sangue
che ci farà sopravvivere
che ci dirà ancora una volta
se mai avessimo sbagliato
che sarà solo perché avevamo ragione
i bambini siriani
Noi vogliamo bene ai bambini siriani.
Abbiamo armato i loro padri perché
li addormentassero sotto lenzuoli di macerie.
Abbiamo pagato l’Orco Erdogan perché
li tenesse a giocare nel fango dei campi profughi.
Adesso
li bombardiamo con missili di baci intelligenti.
Che uccidono tutti, anche la speranza.

Quanto costa una tonaca rossa?
Una sterlina di ricordi
mezzo rublo di pensieri
due dollari di ipocrisia
e quattro yuan di terrore
nel portafoglio vuoto piange la miseria
d’ una strada piena di facce arcobaleno
che ora vuota assiste al lento lavorio
di un carro armato colorato di cemento
a Rangoon come a Lhasa
i sandali insanguinati sono lo spot
delle olimpiadi della convenienza
dentro il braciere
in mezzo alle bandiere
la sacra torcia brucia la colomba
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Il sabato del villaggio 2007
Carrozzerie contorte
tra le lamiere annerite
lenzuoli stesi a nuove assenze.
Il dolore ha la forma dell’urlo
e del pianto
solitario di un padre.
Domani leggeremo di una strage
annunciata venerdì
dimenticata lunedì
Nel mezzo, un sabato di sangue.
Alcuni fogli di verbale
restano sparsi sul selciato.
La primavera di Said
Il sole è gelido qui a Kandahar
il vento d’inverno
non vuole morire.
Sulla distesa di polvere e sassi
gracchiano gli echi dei corvi.
Lontana rintocca la Jihad.
Oggi fa freddo
a due passi da un sole
che non ha più occhi per riscaldare.
Un boia dalla barba santa
mi ha riempito di sabbia anche il cuore.
La mia testa galleggia sul fiume.
Lontano, lontano, lontano
in fondo alle terre lucenti
chissà se una donna riabbraccerà l’uomo
che era con me a primavera.
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Faccia scura
La notte ha la faccia scura
di una luna fiammeggiante
Ha la faccia scura della morte
con l’odore di carne bruciata
Nell’autoradio di un coglione
scoppia una musica devastante
fatta apposta per coprire
per far finta ci sia ancora distanza
tra le rive affollate di uno stesso mare.
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‘68 (le porte aperte)
Avevamo un vestito solo
forse era per non perdersi di vista
sotto, ognuno era solo.
Non aprivamo mai tutte le porte.
Faceva freddo per le strade
così era più caldo abbracciarsi.
O forse era più facile correre
inseguiti dai latrati fatti sirene
e dagli spruzzi di un idrante gigantesco.
E quando scappavamo, scappavamo
forse più da noi stessi che da quei mostri.
Ma se lo facevamo, era per tenere le porte aperte,
per non lasciare che dentro ciascuna di quelle case
forse pulite, forse scivolose di cera,
qualcuno si sentisse prigioniero
delle pallide pareti della sua cameretta
All’aria aperta per le strade luccicanti
urlavamo aprite, aprite le porte!
Ma troppo spesso
dall’altra parte dell’uscio
soltanto silenzio.
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VentiCinqueAprile
Dimmi di quella notte
scolpita sulla canna del fucile
di un fazzoletto al collo
stretto come la fune nel cortile
Dimmi degli occhi di tua madre
delle preghiere e della rabbia
della disperazione
di quell’abbraccio stretto
Di quelle scarpe in più
che babbo non portava
dell’urla negli spari
delle camicie insanguinate
Di quel momento strano
quando nel fondo di due occhi
la nebbia dell’oblio
ti ha fatto sentire come un dio
Dei giorni senza notte
di notti senza luna
di grida e balli a fine
dell’ultima avventura
Ora che più non sei
e un bimbo ha il nome tuo
nell’anima del tempo
un sacerdote in clergyman
ci chiama a messa
senza saper più ricordare
da quale demone ci hai liberato.
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IL LAVAVETRI
Chiamami Ahmed
oppure Abdul
o Mohammed Alì
per me invece resti
uno
tutto chiuso lì dentro
sguardo
sempre poco più avanti
dito
che fa il tergicristallo.
Voglio fare un affare con te:
per cinquanta centesimi
laverò dal tuo vetro
quegli spruzzi d’umanità
piovuti chissà come e perchè
da questo arido cielo di sole.
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Nel nostro comodo senso di colpa
Mi piacerebbe parlarti di me
nell’alba che non cede mai al sole
di un autobus che non sa arrivare
di gente tutta intorno alla stazione
che dice di venire da lontano
senza sapere dove deve andare
Vorrei cantarti della mia paura
quando la casa torna a farsi sera
ed uno sguardo appiccicoso uccide
mutando in ghigno per la compagnia
seduta al bar con la bottiglia in mano
l’abbonamento della curva in tasca
Sulla spiaggia scura di Lampedusa
i granchi affollano scarpe disperse
tra i fiori appassiti il sindaco implora
un dio di togliere l’acqua dal mare
che ci avvicina a quella Terra Nera
e al nostro comodo senso di colpa.
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se un dio c’è
(i bambini di Beslan)
se un dio c’è
e di questo non sarò mai certo
spero che sappia piangere come facciamo noi
al solo ricordo di quel che è successo
se un dio c’è
e avrei tanta voglia ci fosse davvero
vorrei fosse stato lontano, così lontano
da non aver sentito quelle urla straziate
se un dio c’è
e spero per lui che così non sia
gli chiederei il perché
senza aspettare risposta
vorrei solo ascoltare
un vento di piccole voci festose
giocare ancora con le foglie
dell’albero in cortile
intanto quaggiù
la nebbia cambia colore
e diventa più rossa
forse l’abbiamo davvero creato
per non doverci guardare allo specchio.
4 settembre 2005
per i bambini di Beslan
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sono una pecora nera
Sono una pecora nera
la fuliggine
o il sole troppo forte
ha bruciato la mia pelle
Sono una pecora nera
di una notte senza stelle
perché il ladro dei gommoni
le ha portate via con sè
Sono una pecora nera
una faccia scavata
aggrappata alla vita
nelle rughe del buio
Sono una pecora nera
di fame e silenzio
alfabeto rovesciato
in un barile vuoto
lasciato
a galleggiare
sulle onde
di un mare
nero pece
L’uomo senza voce
( a Piergiorgio Welby)
Dall’abisso di un cuscino tormentato
una figura d’uomo senza voce
urla il diritto alla pietà nel suo dolore
Non è forse anche nostro quel diritto?
negato, vilipeso, manipolato
ci inchioda al ferro atroce del tormento
per non spostare il velo, per non mettere a nudo
la fede che non vede, che non sente, che non crede
Che impone e che dispone
si tratti di persone o di concetti
costringe all’obbedienza
o porta a ribellarsi non certo a un dio
ma a qualcuno che si è fatto
di lui da solo portavoce
massacrando chi non ha più voce.
Ora stracciatevi le vesti
sacerdoti del destino
sbracati compattatevi
sotto le insegne del diritto della vita
a non avere vita, a non avere che pianto
Forse è proprio di questo che c’è necessità
di una pena e di una colpa da espiare
per non lasciare all’uomo strade libere
per indicargli sempre la sola direzione
che sia comoda a voi, signori della stola
e faccia ancora a pezzi l’uomo e la sua storia
Ustica
Le facce pallide
di generali in pensione
ora sorridono
impettite stellette
si allontanano veloci
dalla scena del delitto
tra una valigia e una bambola
galleggia
nel mare sporco di Ustica
la verità
Albero Killer
La luce si fa scura in queste parti
è come un suono opaco e inconcludente
ti appare quando meno te l’aspetti
e non sorprende
quasi ammansisce.
Ti lascia prender mano sul volante
il piede pesta l’acceleratore
più giù, più giù, voglio vedere dove
finisce il fondo del bicchiere e ancora
più in là, dove la luna si arrovescia
e sembra una fetta di limone
persa nel Cuba Libre della notte.
Ti accoglierei a braccia aperte, amico
se solo avessi braccia anziché rami
e pancia dolce e morbida a cullarti
e non un tronco immobile e nodoso
Adesso tutti piangono il tuo nome
e un uomo ha preso a calci il mio destino
sbattuto “Albero killer!” sul giornale
Come se io potessi
come se io volessi
-e sai che lo vorrei-
volare via con te.
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