80.doc – più a sinistra dei Rolling Stones
Avvertenza per il lettore: in questo libro sono state per mia volontà disattese le regole relative all’uso delle maiuscole alla apertura del virgolettato. L’editore ha sulle prime storto il naso, ma poi si è convinto. Chissà come ho fatto. A parte questo, il testo che adesso pubblico on line per mia scelta, dato che il libro è esaurito e l’editore non è in grado di ristamparlo, non è ripreso dall’impaginato ma dal testo che ho inviato per la valutazione.
Quindi avrete il “bello della diretta”. Buona lettura 🙂
chapter 1
Non sono ancora arrivati, però manca poco. Gli anni ottanta per me cominciano adesso. Da una foto che campeggia sui quotidiani. Una figura snella, una posa plastica, una pistola impugnata con tutte e due le mani. Un passamontagna. Sullo fondo, il selciato di una strada di Milano. Gente che corre….
Bum bum bum bum il cuore corre mentre corro. Compagni, la lotta..la lotta…la lotta non c’è più! Lotta continua si è sciolta. Sono andato al mare a Baratti, e al ritorno scopro che se ne sono andati tutti al mare. Ma dall’altra parte. Altro mare, altra città, altro vivere. Rimini. Dove siamo finiti? Sciolti. Sciolti nel movimento. Una fine elegante. Mica una resa, uno sbracamento, una svendita. No. Noi no! Noi ci siamo “sciolti nel movimento”. Uno slogan da rivendere a Canale 5, se ci fosse di già. Qui per ora c’è solo la Rai, due canali due, facce grigie come i caschi dei celerini. Per sapere qualcosa bisogna leggere il giornale. Quale? Lotta Continua, naturalmente!
Mica il Manifesto. Quelli stanno troppo a destra, attaccati al PCI, il Grande Traditore. Se non ci fregava lui, a quest’ora avevamo già fatto la rivoluzione. Ora invece dobbiamo scioglierci. La rivoluzione? Si vedrà, intanto pensiamo a mescolarci bene bene con le masse in movimento. Boh! Questi se ne sono andati al mare e mi hanno lasciato qui, con un giornale in mano e tanti punti interrogativi come capelli che sembro Battisti (Lucio non Cesare) la mattina appena sveglio. E ora?
Sentirò Mario. Lui ne sa qualcosa di sicuro. Mario l’Operaio, trentacinque anni, baffoni, manone, fazzoletto rosso al collo. L’operaio di lotta continua. L’unico. Quando entra in sede, tutti a salutare soddisfatti. Colpettini di gomito a dire: “lo vedi? La classe operaia è al nostro fianco!” altro che quelli di Potere Operaio, quei professorini della rivoluzione, tutti gagà coi fularini o la sciarpa di cachemire, il loden pettinato e gli occhialini da maggio francese. Sempre pronti con lo slogan giusto, come se ci avessero la Michelin della rivoluzione sotto il braccio per indicarci la strada. Quelli, d’operaio, ci hanno solo il nome. Noi invece l’operaio ce l’abbiamo e ce lo teniamo bello stretto.
Meglio affrettarsi che perdo l’autobus. Chissà chi ci trovo, in sede. Ecco il 14. Niente bigliettaio. Meglio. Controllore, basco nero, il tuo posto è al cimitero! Voglio proprio vedere com’è il tramonto del sol dell’avvenire in via ghibellina.
Via ghibellina. Una strada interclassista. Inizia con il fru fru di via del proconsolo, negozini per borghesotti benpensanti, costeggia Piazza Santa Croce, quella dove finiscono tutti i cortei tranquilli, (quelli che arrivano fino alla fine e non si sciolgono prima con gli scontri e le cariche della polizia), la Piazza del Popolo di Firenze, e finisce sui viali con le Murate, le carceri e le case intorno tutte sbertucciate. Ci trovi di tutto. Il borghese, il proletario, e lo sfigato, il sottoproletario, quello che l’han beccato e se ne sta dentro, a proseguire la lotta con la sua vita.
Tutto in una strada. Firenze è veramente piccola, diobono.
Il 70, rosso. Ovvio, no? Davanti a quel covo di gallinelle fasciste del linguistico. Passata l’enoteca Pinchiorri, che è così da ricchi che la si ignora, da quanto gli è distante. Qui da noi, in sede, ai muri si vedono i segni e le scritte di anni di ciclostile e di riunioni. Stanze grandi, con cartoni e compensato a fare da pareti; le porte non servono, qui c’è la democrazia vera, siamo tutti nella stessa barca. Anzi, no, una stanza chiusa c’è. Quella stanzina in fondo, dove si riunisce il Direttivo. Anche se non siamo ad Avanguardia Operaia (quelli sono tutti grulli e grigi, a furia di ripassarsi la lezione sembrano studenti della Scuola Elettra, invece che militanti), un po’ di riservatezza ci vuole. Il Direttivo. Cinque compagni che la sanno lunga, forse più degli altri, e che decidono. Cosa? L’applicazione della Linea, la stesura delle Tesi dello Statuto, il collegamento con la sede centrale, insomma, dirigono. Una bella bega, quella di dirigere.
Io quando sento parlare delle Tesi mi sento male. Pagine e pagine scritte fitte fitte, dove c’è spiegato tutto, ma proprio tutto, di quello che succederà e di quello che dovremo fare. E’ scritto così fitto che si diventa grulli anche solo a leggerle. E sono così piene di contenuti che si fa fatica a non addormentarsi sopra senza averci capito un acca. Anche perché bisognerebbe avere il tempo per meditare su ogni singola riga, e comprenderne appieno il significato. Roba da vecchi, insomma.
Io non ho tempo. Mi scappa la vita ogni giorno, mi corre accanto, balla scherza e si diverte come una ragazza a scuola, mentre io passo da un attivo al liceo sul Cile alla volante rossa (che non è un club della Ferrari ma una ronda antifascista che si fa la mattina presto, madonna quanto presto, prima d’entrare in classe), da un picchetto ai cancelli d’una fabbrica a un banchino davanti alle poste per l’autoriduzione del gas e della Sip, da una spintonata per prendere la testa del corteo ad una fuga disperata per evitare le camionette. Se rimane tempo, tutti a casa di Beppe, un occhio al libro di testo e tutte e due le orecchie all’ultimo ellepi dei Pink Floyd…e poi se ci scappa, qualcosina con la Patrizia, o la Eleonora, o la Manuela, o la Rossella…sempre con la testa alla rivoluzione, però.
Eccomi arrivato in sede. I rumori del traffico della strada mi accompagnano per le stanze vuote. Tutti via? No, aspetta un po’…la stanzina del Direttivo. Voci. Mi affaccio.
I cinque intorno al tavolo. Luca, Lorenzo, Michele, Alfredo e Mario.
“ciao compagni” sillabo impacciato
“ciao Lele” soffia Alfredo nel trombone sfiatato della sua voce. È più roca del solito. Mi guarda.
Gli altri no. Luca e Michele sono indaffarati con il ciclostile. Cercano di sollevarlo.
“minchia quanto pesa” sbotta Michele. Si gira verso di me “ce la vuoi dare una mano, signorino?” sempre quel tono sprezzante, come se essere uno studente dello scientifico fosse una colpa
“dai Lele, per favore” mi fa Luca, con un tono che non ammette esitazioni. Del resto un capo lo si riconosce dalla voce.
Arriva anche Alfredo. Mario no, è rimasto lì, seduto sulla seggiola di legno sgangherata a leggersi il giornale. Scuote la testa.
Intanto tiriamo su il ciclostile, puzza di inchiostro e pesa un quintale.
Lo portiamo sul retro, dove ci aspetta un Ape. Quella di Alfredo. Ce lo mettiamo su a fatica. Poi lo leghiamo ben bene.
“indo’ lo porti?” gli domando
“a casa mia, a Montale, così se ne sta al sicuro. Qui da oggi ‘un si sa più icchè succede. Ci vediamo!” e tira la leva. Il tritacuregge si mette in moto con una fumata. Due balzi ed è già sulla strada. Guardo l’ape, con sopra il ciclostile e dentro Alfredo, per l’ultima volta. Ma ancora non lo so. Mi gira la testa, e non è solo per lo sforzo. Torniamo dentro.
Luca si avvicina, ha lo sguardo solito, duro ma buono. “Siamo nella merda, Lele” mi dice a denti stretti. “Questo l’avevo capito” faccio. Gli altri ora mi guardano. Marione butta via il giornale, s’alza dalla seggiola e sbotta. “Ma che cazzo gli è preso? Sciogliersi nel movimento? E che cazzo vuol dire? Domani in fabbrica come glielo spiego a quei pezzi di merda del sindacato? Mi faranno a pezzettini! Ogni volta che apro bocca mi danno del provocatore; figurati ora, che Lotta Continua non c’è più. Si faranno due belle risate e un vinsantino alle mie spalle.”
“ Calma, Mario” la voce di Lorenzo, nasale, tagliente, precisa. Una voce da dottore. “la decisione di Rimini è di portata storica. La lotta non muore, passa solo di livello. Saranno le masse a imporre tempi e modi delle nuove forme di lotta”
“Ma che cazzo dici?” Michele, una vita al ciclostile. Trent’anni, pelata da sessantenne, mai un’ assenza a una riunione. “qui se la sono data a gambe, te lo dico io che hanno fatto!”. Si infila il giubbotto e s’avvia rabbioso all’uscita. Lorenzo s’aggiusta il loden, si mette il basco in testa. Se ne va, borbottando un “ci sentiamo” che puzza d’addio lontano un miglio. Il Marione ha gli occhi lucidi, e un sorriso amaro sulla faccia. “Che schifo!” sputa per terra. Luca saluta, lui per me non scomparirà di sicuro. Ci chiamano “scala uno a dieci” da come siamo simili. Lui è il 10, io sono l’uno. Eskimo, blue jeans e passamontagna sui capelli biondi, tutto in scala… stessa proporzione anche con le compagne. Lui “raccatta”, io molto meno. “Ciao Lele, ciao Mario, a domani”.
“Domani un corno” ribatte l’operaione. “Domani dormo tutto il giorno, mi dò malato per un mese! Mandino pure il medico fiscale, quelle merde. Ma io in fabbrica ora ‘un ci torno.” Lo aveva fatto anche quando la Juve vinse lo scudetto. Un mese fuori dai cancelli per non essere costretto a sopportare il caporeparto.
Se ne va scuotendo il capo, con il maglione paricollo rosso mattone tutto slargato. Controluce, la sua sagoma occupa quasi tutta la porta.
“Oh, e qui chi chiude?” mi scappa di bocca
Si gira. “Lascia aperto, tanto ci siamo sciolti…. Così ci si mescola meglio!”.
Fine della rivoluzione. Fuori da quella porta, gli anni 80 mi aspettano.
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