
La ordinaria vita di un elegante condominio di Corso Italia viene sconvolta dal brutale assassinio della Sig.ra Vittoria Anselmi, l’inquilina dell’attico, nota patrocinatrice e presidentessa di una ben conosciuta associazione di beneficenza, la prestigiosa “Confraternita”.
L’indagine del commissario Antonelli si intreccia con la vita dei gemelli Duprè, due “gocce d’acqua” che abitano al terzo piano. Identici per forma, ben diversi per sostanza.
I due gemelli verranno coinvolti in un intreccio di trame che partendo da sponde opposte li porterà allo stesso punto di arrivo.
“Due gocce d’acqua – I gemelli Duprè” è un thriller che non si limita a seguire una avvincente e sorprendente trama ma parla diffusamente delle peculiarità psicologiche culturali e sociali che affiorano preponderanti nell’animo umano e nella stessa società in un periodo storico di grande spinta innovativa e trasgressiva.
Capitolo 1
Franco
“Bene, professor Dupré. Per ora è tutto. La ringrazio della collaborazione.
Se dovessi avere ancora bisogno di lei, le telefonerò,
sperando di non disturbarla. Lo stesso le chiedo di fare con me,
casomai le venissero in mente altri dettagli, anche cose di poco
conto, che non le paiono importanti. Per noi lo sono sempre, in
questi casi. Arrivederci, mi saluti suo fratello. Non lo stia a svegliare,
la sua testimonianza mi è più che sufficiente. Per qualsiasi
cosa, il mio telefono è sul biglietto”.
Chiudo la porta.
Non capita tutti i giorni, una cosa così. Ma poi, in un condominio
come questo, in Corso Italia! Mi ronzano ancora le orecchie.
La signora Anselmi. Quella dell’attico. Strangolata. Uccisa.
No, non può essere vero. Chi può essere stato? Uno dei suoi tanti
amici? Eh, sì, giravano molte voci su di lei. Le solite, quando si
parla di una donna di classe un po’ particolare. Una donna impegnata
sopratutto ad aiutare gli altri.
Vengono in mente ricordi. Erano appassiti, ma adesso l’acqua
dello shock li rende di nuovo vividi, come fossero polaroid. Lei
che arriva, con il suo carico di valigie portato a fatica da un facchino
della ditta di trasporti che per una settimana si è occupata
di riempire l’‘appartamento del cielo’, come lo chiamavamo noi
ragazzi, con una montagna di mobili e ha sconvolto la quiete del
cortile che fa da nostro campetto di calcio. Sarà stato il 1960,
forse il 59. Abbiamo appena iniziato la partita quattro contro
quattro, Fiorentina contro Milan. Io sono Hamrin, piccolo e
biondo come lui. Sto per tirare il rigore al Cappelli, che tutti
chiamano Cudicino, perché è il più basso di tutti. Lui dice che
da grande crescerà fino a toccare la traversa con la testa. Io non ci
credo, basta fargli un pallonetto e lui caccia farfalle. Tiro, faccio
gol e prendo in pieno una bella signora dal vestito chiaro lungo
e i capelli che sembrano il mare liscio con il sole. Un signore più
vecchio che la accompagna, prende il pallone e mi guarda male.
“A calcio si gioca alle Cascine, ragazzino! E la palla me la tengo
io, così la rendo alla tua mamma. Come ti chiami?”.
“Hamrin”.
“Ah non sei italiano?”.
“No, sono svedese”.
“Non è vero, non è svedese”, quella merda del Cappelli.
“Ah no?”.
“Si chiama Dupré, Franco Dupré!”.
“Spia!”. Gli corro addosso, gli do una spinta, casca per terra mi
ci butto sopra, lui piange io lo prendo per il collo. Poi sento una
mano che mi prende per la maglietta e mi solleva.
“Ehi, ma sei ammattito? Fermati, piccolo demonio!”.
“Lasciami! Lasciami! Mi rompi la maglietta!”.
Lui mi lascia, mi rialzo. Lo odio. Una voce.
“Aurelio, ma cosa fai? È un bambino”.
“Cara, sarà anche un bambino, ma è un vero discolo!”.
“Io non sono Discolo! Sono Hamrin!”.
“Ehehe…”, la risata di quella bella donna sembra la musica
della Vanoni. Piace tanto alla mamma.
“Ma certo, piccolo svedese…”. Si china e avvicina il suo viso.
Odore di profumo. Fa girare la testa.
“… Hai fatto un bel gol, sai? Un pallonetto al sette”.
Sbatto gli occhi. Non ho mai sentito una signora parlare così.
A casa, di calcio parla solo babbo con lo zio Renato. La mamma
mica lo capisce il calcio. E nemmeno al bar dove si vede la partita
alla televisione ci sono donne. Le donne non lo sanno cos’è. Credono
che sia correre in mutande e tirare pedate al pallone. Mica
lo sanno di Hamrin.
“Aurelio, via… fai il bravo… In fin dei conti, siamo arrivati
adesso, e gli abbiamo fatto una invasione di campo… ehehe…
dai, non mi ha fatto nulla. Rendigli il pallone, per favore”.
“Vittoria, sei sempre la solita. Tutta cuore per i bimbi, eh!…”.
Si volta verso di me, si avvicina. Puzza di profumo cattivo come il
sigaro dello zio. Mi porge il pallone. “Ti è andata bene, Hamrin
Dupré… ringrazia mia moglie, che se era per me….tieni!”.
Prendo il pallone senza guardarlo, corro verso il portone interno
che dalla corte porta all’ascensore. Prima di varcare la soglia,
mi volto. L’uomo sta dicendo al facchino dove deve portare
le valigie, indicandogli l’ascensore di servizio che sta dal portiere.
Lei invece guarda in su. Forse vuole vedere l’appartamento
del cielo. Ma non si vede, da lì. Si protegge gli occhi con una
mano, poi abbassa lo sguardo e incrocia il mio. Sorride, come
una nuvola bianca. Abbasso la testa e corro. Prendo le scale.
Anche se mi fa fatica, è meglio non prendere l’ascensore. Tanto
io non abito in cielo.
Tutto sfuma, sono di nuovo qui. Vado in cucina a farmi un
caffè, con la macchinetta da tre, così quando Gianni si sveglia lo
trova già caldo. Devo raccontargli tutto, ma lui chissà se ha tempo.
Corre sempre, proprio come facevo io quando ero Hamrin.
Gianni
Io le sveglie le odio. “Puttana miseria, già le cinque”. Sono sempre
le cinque. Forse Franco ha fatto il caffè. Diamoci una mossa.
Caffè, doccia, vestiti, chiodo e moto. Guardo la finestra. Non
piove. Niente scafandro. Dieci flessioni, dieci piegamenti, dieci
tirate all’insù alla sbarra che ho piantato alla trave della porta. Un
barman della notte deve essere in forma. Bisogna stare svegli, bere
poco e fumarsi la roba giusta. Qualche pasticca aiuta. Ok. Mi
affaccio alla porta di cucina. Eccolo, di spalle, seduto ingrucciato
con le braccia appoggiate al tavolo.
“Hai fatto il caffè?”.
“Sì, dovrebbe essere ancora caldo, te l’ho lasciato nella macchinetta”.
Mi guarda strano.
“Che c’è?”.
“È successa una cosa orribile, Gianni…”.
“Cioè?”.
“Hanno ucciso la signora Anselmi”.
“Ucciso? Ma dove?”.
“Qui, a casa sua”.
Vado alla macchinetta, mi verso il caffè. Me ne ha lasciato
poco. Tirato pure sul caffè, peggiora. Prima facevamo tutto a
metà, da buoni fratelli. Fratelli gemelli. Gocce d’acqua. Ma solo
a prima vista. Io con lui non ho nulla a che spartire. Avrei voluto
fare altro nella vita che fare il professore in un liceo di rompipalle!
Chiaro che poi gli vengono le spalle a gruccia e gli occhiali a
trent’anni. Ha scambiato la vita per una biblioteca. Con gli studenti
che spaccano i coglioni parlando a voce alta. Non è neanche
una tazzina, sto caffè. Tirchio!
“Ma non dici nulla?”.
“Di cosa?”.
“Ma mi hai capito? Hanno strangolato l’Anselmi! Proprio qui!”.
“Beh, spiace. Poveretta”.
“Spiace? Gianni, a volte riesci ancora a stupirmi. Ti spiace e
basta? A me sembra tutto un’allucinazione… è venuto pure un
commissario qui…”.
“Un commissario? E che voleva?”.
“Ma come che voleva? Stava svolgendo le indagini, mi ha chiesto
informazioni su di lei, quando l’avevo vista l’ultima volta, che
tipo era, che persone frequentava…”.
Lo guardo. Sorrido. Sembra viva dentro un film. Non ha capito
in che mondo di merda viviamo.
“Beh, allora ti sarai divertito…”.
“Divertito? Gianni, ma sei di fuori? Hai fumato la tua solita
schifezza? io non mi diverto! è morta una persona che conosco
bene!”.
“Ehi, Franchino, okkei… calma… è morta. Mi dispiace. Ma
io che c’entro? Stavo solo dicendo che dato che sei una ciana…”.
“gianni io non sono una ciana! Casomai uno che si guarda
attorno, osserva, pensa! Mica come te, che ti fai passare la vita tra
le gambe senza farci nemmeno caso!”.
L’ho fatto arrabbiare. Capita sempre. Mi piace vederlo incazzato.
Se urla è vivo.
“Franco, tra le mie gambe c’è sempre qualcosa di interessante…”
“Sei un idiota!”.
“Può darsi. Ma molte non la pensano come te”.
“Parlare con te è solo tempo perso. Comunque l’Anselmi è
morta, il commissario voleva un po’ d’informazioni, e io ho evitato
di svegliarti. Ho fatto proprio bene, perché sennò con il tuo
solito atteggiamento, magari diventavi pure un sospettato. Non
mi stupirebbe”.
“Cosa, che l’abbia uccisa io?”.
“E levati dalla faccia quel sorrisetto da barman! No di certo.
Non mi stupirebbe però che tu ti mettessi nei guai. Non fai altro,
di questi tempi”.
“Gianni, dai… se ti riferisci a Linda…”.
“Linda, Giò, Enrica, Lucilla… e quell’ultima, come si chiamava?
Ah sì, Veronica, che per colpa sua e tua abbiamo avuto una bella
montagna di muscoli ad aspettarti per una settimana sotto casa. E
poi è finita che sono stato io a rischiare la pelle! Tu non ti sei fatto
mai vedere e lui ha beccato me. Manca poco mi ammazza. Se non
arrivava il portiere, Attilio, a spiegargli che siamo gemelli, quello
mi mandava al cto. Oppure a Trespiano diretto”.
Quando fa così mi fa pena. Lui non scopa da quando la Lucia
l’ha mollato. Saranno sì e no tre anni. Dicono che in una famiglia
c’è sempre uno sfigato, tra i fratelli. Per fortuna è toccato a lui.
“Ok. Senti devo andare, mi dispiace per la tua Anselmi, so che
ci eri affezionato”.
“Ecco, sì, vai… certo che ci tenevo… è stata una mamma, per
me. Meglio della nostra”.
“Franco falla finita. La mamma è stata quello che è stata, ma
resta sempre la nostra mamma. E l’Anselmi, ti piaceva solo come
mamma, oppure…”.
“Cosa vuoi dire?”.
Se fosse messo come me, mi picchierebbe. Ma non lo è. Storto
e ingrucciato, da quella volta. L’ho sempre detto, che la politica
fa male.
“Nulla, scherzavo… era una bella donna… un po’ matura…
ma scherzavo”.
“Bada, levati di torno! Sei davvero un povero idiota. Una viene
assassinata e lui scherza”.
“Franco… la vita è tutta uno scherzo, non ci sei che te che non
l’hai ancora capito e la pigli sul serio. Ora vado a fare gli esercizi
e poi la doccia”.
“Vai, tanto a badare al condominio ci resto io… ma tu da
quand’è che non ci avevi parlato?”.
“Io? Boh, che vuoi mi ricordi… ora su due piedi… ma poi che
te frega? Che ti sei messo a fare il poliziotto? Vabbè… vorrà dire
che mi procurerò un alibi, signor commissario…”.
Lo lascio a guardare il pavimento, poi il muro, poi la finestra,
poi il tavolo… lo conosco bene. Lui guarda sempre. Io vivo, e lui
mi guarda vivere.
Via, ora mi muovo, sennò faccio tardi e quella merda secca del
Bomba lo racconta al boss.